URLO - REBECCA FILIERI (anno 2, n.7)
Continuando sulla scia degli autori della beat generation, vi presento Allen Ginsberg con uno dei suoi poemi più famosi, “Urlo”.
Letto per la prima volta nel 1955, processato nel 1957 per contenuti osceni, considerato oggi uno dei capolavori della letteratura contemporanea, è stato scritto dal poeta sotto l’effetto del peyote, la droga degli sciamani, per raccontare le sue esperienze e l’America del suo tempo. E’ un flusso di parole senza punti fermi, immagini e metafore frutto di allucinogeni e vita quotidiana, in cui è il ritmo della lettura a scandire il ritmo logico, a dare senso a quei termini così apparentemente scollegati e a rendere quei versi geniali. “Urlo” è diviso in tre parti: la prima descrive le situazioni vissute da Ginsberg tra poeti, drogati, musicisti (tra cui l’amico Bob Dylan) e pazienti di ospedali psichiatrici, come Carl Solomon, a cui è indirizzata la terza parte del poema, che parla dei momenti, delle speranze e delle paure da loro condivisi. La seconda parte, invece, è un inno di protesta contro lo stato americano, identificato con Moloch, il mostro di un’allucinazione di Ginsberg che ha ispirato la sezione. La nota finale chiude l’opera con ottimismo e santificando ogni cosa tramite il ripetitivo mantra “Holy!”.
In una recensione il precedente passaggio di descrizione del contenuto è obbligatorio. In questo caso mi sembra inutile perché “Urlo” è un libriccino da prendere, aprire, gustare, amare, chiudere e amare di nuovo. E su cui riflettere.
Una lettura di trenta minuti all’incirca, camminando tra giochi di parole, flash di immagini crude, caricatura, protesta, sentimento, società, arte e pensiero nell’ urlo di un drogato omosessuale genio poetico.