QUELLI TRA PORTA E REALTA'- ELISA MANTA (anno 4, n.2)

PORTIERE: in alcuni sport, specie nel calcio, giocatore che difende la porta della propria squadra. Ricorro al dizionario d'italiano non perché non conosca il significato di questo termine, tutt'altro, ma solo per farvi capire quanto poco esauriente sia questa definizione per me. Già, proprio il portiere. Tutto è cominciato quando avevo otto anni, era estate, l'estate del 1982, l'estate dei mondiali di Spagna. Il paese invaso di bandiere tricolori, l'atmosfera piena di gioia e speranza davanti alle televisioni che trasmettevano l'Italia di Bearzot, l'Italia di tutti noi.  Io e i miei amici passavamo i pomeriggi nel cortile del nostro condominio, loro giocavano a calcio, io restavo seduto a leggere Diabolik. Non perché non volessi giocare, anzi, ma a quell'età ero un bambino “cicciottello”, inseguire un pallone di qua e di là mi sfiniva, avevo subito il fiatone, in poche parole: ero la “solita schiappa”, quindi...tutta la vita Diabolik.
Ora, per raccontarvi come ho scoperto di voler diventare un portiere dovrò fare una piccola premessa: io non credo nel destino, sarà stato forse un caso, ma proprio il giorno della finale dei mondiali capii che quella porta, quell'area di rigore sarebbero state la mia strada. Così quel giorno, nel cortile, decisi di chiedere ai miei amici se potevo giocare con loro. La loro reazione fu proprio quella che mi aspettavo: si guardarono perplessi, come per dire: “e dove vuole andare questo? Con quel fisico??”. Risultato? Fui rintanato in porta, come si fa di solito quando uno non ha le capacità, ma non mi offesi, anzi, fui determinato a dimostrare che comunque valevo qualcosa, anche se per gli altri stare in porta equivaleva a “stai fermo lì, che combini meno guai”. Sempre sottovalutato questo ruolo, chissà perché. Ed infatti, come a sostenere questa teoria, iniziai a prendere una carrellata di goal, così, uno dopo l'altro. Gli altri bambini ridevano, sì, pare proprio che io facessi ridere di gusto ma... aspettate un attimo: una, due, tre parate! Che stava succedendo? “Era tutta questione di riscaldamento” pensai, “ora vi faccio vedere”. E così, tra gli occhi increduli dei miei compagni, iniziai a urlare alla difesa, a sistemare la barriera (perché noi giocavamo seriamente!) e a parare addirittura i palloni che mi arrivavano da un calcio di punizione. Sembrava che avessi subìto una metamorfosi, mi sentivo sicuro, mi sentivo libero da quel senso di soggezione che mi provocava un pallone. Così, dopo ore passate sotto il sole a giocare, tra i complimenti degli altri compagni, tornai a casa stravolto, sudato, ma felice di aver scoperto qualcosa che mi piaceva fare davvero, qualcosa che mi divertiva. Entrato in casa, vidi tutto pronto per la grande serata, tutto pronto per la finale. Se mia madre mi avesse visto nelle condizioni in cui ero, mi avrebbe inseguito per tutta la casa, così corsi nella mia camera prima di incontrarla e cercai di darmi una ripulita. Intanto da fuori sentivo la voce di mio padre e qui apro una piccola parentesi: grande uomo mio padre, severo ma dolce al tempo stesso, lui era un pilota delle frecce tricolori, voleva trasmettermi questa sua passione, ma non ci riusciva, non mi piacevano gli aerei, troppo rumore per uno tranquillo come me. Diceva che volare lo faceva sentire libero, che solo nel cielo potevi godere di una libertà che in Terra l'uomo non sapeva concedere. E riflettendo su quelle parole, pensai che anch’io a volare tra i pali mi ero sentito libero. Quella sera l'Italia vinse i Mondiali e tra le urla e la gioia di tutti io rimasi incollato alla TV, ad aspettare che anche lui alzasse la coppa al cielo: Zoff. E guardandolo decisi che un giorno sarei diventato come lui, sarei arrivato lì come lui, da un cortile del condominio di una città, non a difendere semplicemente la porta della mia squadra, ma a diventare grande, ad essere l'anima, la mente della squadra e all' occorrenza, essere pronto a volare per difenderla. Un po' come Zoff.

 

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