PEPPE REWIND- IL CINEMA BUSSA SEMPRE DUE VOLTE

GRAN BUDAPEST HOTEL
Wes e l’eleganza perduta

Non tutti i film hanno un lieto fine. Purtroppo ce ne sono alcuni che, in punta di piedi, spariscono dalla circolazione senza neanche aver dimostrato il proprio valore, condannati a rimanere nell’anonimato…e proprio tra questi vi possiamo trovare delle piccole gemme, pellicole meritevoli di una seconda chance aspettano solo di essere guardate e ammirate da noi spettatori. Ecco dunque il motivo di questa “nuova” rubrica: ripescare tra gli infiniti meandri della Settima Arte, che sia d’essai o blockbuster, ciò che è degno di nota, perché…il cinema bussa sempre due volte.

Difficile apprezzare il buon regista e sceneggiatore Wesley Wales Anderson, per gli amici Wes. Con una cifra stilistica subito riconoscibile e dal sapore disneyano, con la leggerezza e  la malinconia sempre a braccetto, molte sue pellicole (I Tenenbaum, Moonrise Kingdom) sono un vero piacere visivo ma solo per pochi cinefili. Nella sua ultima sua opera invece , Grand Budapest Hotel, trova finalmente la quadratura del cerchio, affinando ancor di più il suo marchio di fabbrica e conquistando il pubblico con una storia veramente affascinante e intrigante.

Ispirato alle opere dello scrittore Stefan Zweig, il film ha una costruzione a scatole cinesi: uno scrittore racconta di come il suo romanzo sia nato dalla narrazione orale di uno dei protagonisti della vicenda, Zero Moustafa, testimone delle avventure di Monsieur Gustave H. (un eccellente Ralph Fiennes in un’insolita veste comica), concierge del Grand Budapest Hotel, fra i più prestigiosi degli alberghi nell’immaginario stato di Zubrowka. Proprio Gustave H. è il pezzo forte della nostra intricata storia: un uomo a suo modo gaudente ma non decadente, un esteta amante del bello soprattutto quando è funzionale, eccentrico ma sempre inflessibile, impegnato a combattere a colpi di educazione, amore, e profondissime dignità e dedizione (tanto professionali quanto umane) le barbarie e le cattiverie del mondo e dei suoi abitanti. In un periodo (siamo nel 1932) ignaro delle vergognose barbarie che avrebbero sconquassato in seguito la nostra civiltà, lui diventa una figura amabile ma malinconica, un essere fuori dal tempo destinato al decadimento e alla rovina, a soccombere al brutto e alla cattiveria che prenderà il sopravvento insieme all’aridità e all’egoismo degli uomini. Ma non perderà la sua battaglia: la sua eredità vivrà ancora grazie al lobby boy Zero, continuerà quell’amore con cui il concierge benedice la passione tra il fattorino e la pasticcera Agatha, necessario a sbrogliare la matassa narrativa, anche se descritto da Anderson con amaro realismo, solo con la piacevole narrazione di questi mirabolanti avvenimenti.

Quindi Grand Budapest Hotel non è solo un gran cast corale (Bill Murray, Owen Wilson, Edward Norton, Adrien Brody, Willein Dafoe, Harvey Keitel e un’irriconoscibile Tilda Swidon, per citarne alcuni), non è solo una colonna sonora amabile come i dolci di Agatha (superbo il lavoro di Alexander Desplat) non è solo amore e avventura, non è solo un omaggio alla commedia di  Ernst Lubitsch e Billy Wilder, non punta soltanto al tema padre e figlio (putativi), è una dichiarazione d’intenti, sull’arte e il senso del raccontare. Perché in fondo è questo il cinema, il messaggio di Wes: il racconto malinconico e suadente della possibilità del bello e dell’amore, della dignità e dell'eccentricità in un mondo (cinematografico e non) sempre più barbaro, grigio ed egoista.

CONSIGLI:

Moonrise Kingdom (2012); Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004); I Tenenbaum (2001): tre titoli della premiata ditta Wes.

VOTO: 8.5

 

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